Giochi creativi

Quanti modi esistono per giocare? La risposta non è facile, anche se si parte dal presupposto che il gioco è uno stato dell’essere e non qualcosa che si può possedere. Tuttavia questa risposta può apparire evasiva, quindi proviamo in un altro modo.


Facciamo finta che il gioco sia qualcosa che possedete, ad esempio una trottola, un mazzo di carte, il monopoli o un pallone da calcio. Senza istruzioni la prima domanda potrebbe sorgere è: “cosa ci faccio?”. Se fossimo allo stadio di consapevolezza dei cavernicoli, cioè totalmente inconsapevoli circa il potenziale dell’oggetto, davanti a una trottola ci verrebbe in mente di farla ruotare? Probabilmente no.


Come non ci verrebbe in mente di giocare a calcio davanti a una noce di cocco anche se, come ci capita
coi sassi in riva a un lago, potrebbe diventare irresistibile lanciarli addosso a qualcosa o a qualcuno. Di certo molti hanno provato a giocare a calcio durante l’intervallo a scuola, assemblando con carta e nastro adesivo una “cosa” che prendesse il posto di una palla. Certamente meno pericolosa di una noce di cocco anche se lanciata a casaccio, magari per colpire a sorpresa qualcosa o qualcuno solo per vedere gli effetti.


Da queste poche considerazioni iniziamo a intravedere che il gioco non riguarda l’oggetto, ma sembra più essere in sé un oggetto. Potremmo poco realisticamente dire che il gioco è un insieme di regole. Poco realisticamente perché in effetti potremmo iniziare a giocare prima di definire delle regole, utilizzando queste ultime solo per rendere il gioco più “interessante” e introducendole mentre stiamo già giocando. In effetti tirare palle di carta di discrete dimensioni addosso alla gente iniziando una guerra, dopo un po’ potrebbe diventare noioso e così iniziamo magari a stabilire delle regole come quelle di “palla prigioniera” che non faremo difficoltà a condividere con chi è preso dalla “foga” del gioco “guerra di palle di carta”.

Ecco questo aspetto è forse d’aiuto: nel gioco la regola è gradita se ravviva il divertimento, cioè se la
semplice idea di introdurre la regola, alza la sfida e rende l’attività del gioco più interessante o attraente per tutti i partecipanti. Ma se ce qualcuno che non gradisce quella sfida, che si sente umiliato, offeso, vilipeso, allora la tendenza (per conservare alto il senso del divertimento) è quella di creare regole che permettano la condivisione del gioco. In altre parole, maggiore è il gruppo di gioco, maggiore è la condivisione del divertimento, maggiore è il divertimento stesso. Quindi la regola pare avere due scopi ben precisi nel gioco, uno è quello di aumentare la sfida per evitare la noia dell’eccessiva semplificazione, l’altra è mantenere la condivisione del gioco al numero più alto possibile di persone.

Tuttavia anche questa osservazione è ricca di insidie e va “aggiustata”. Tanto per cominciare c’è il
paradosso che il gioco è tanto più divertente quanto è più semplice: sfido qualunque persona a dire che una partita di scacchi sia più divertente che giocare a tirarsi gavettoni sulla spiaggia. Poi, giusto per non farci mancare nulla, c’è il problema che qui definiremo “effetto variante”, cioè il fatto che il fondamento che rende spassoso giocare, non sembra stare nel quadro del “gioco” in sé, ma nella possibilità di variare, di provare a variare il più possibile in ordini di tempo e quantità non meglio definiti l’attività stessa del “giocare”, con moti evolutivi apparentemente del tutto caotici. Come il delfino nelle attività che esegue in vasca insieme a un istruttore, allo stesso modo anche il bambino umano nella sua crescita, non pare riescono a stare nella monotonia di un’unica attività di gioco troppo a lungo, ma devono variare spesso e volentieri a volte anche in modo radicale, per non “annoiarsi”. Questo suggerisce che il gioco potrebbe essere giocato in funzione della sua possibile evoluzione “in altro”.

Ma se ci concentriamo nella domanda, “come evolve il gioco”, credo che la risposta potrebbe non
giungere mai. Come nella domanda “come evolve una foresta” o “il tempo atmosferico”. Voglio dire che a dispetto della apparente caoticità manifesta nell’evoluzione di una attività di gioco, forse il sistema è più facile se lo descriviamo nelle sue componenti più elementari piuttosto che nella sua interezza. Ad esempio, una foresta è fatta da piante composte da rami che crescono e si dividono, crescono e si dividono e via così. Solo questo. Poi però l’aspetto della foresta dato dall’intrico di ramificazioni, cambia ogni volta entro una complessità generale difficilmente comprensibile. Allo stesso modo il gioco è dato dallo stato in cui un individuo si relaziona con il suo ambiente, stato che poggia unicamente su due “ramificazioni”: “fare finta” e “divertirsi”, dove questi due rami devono comunque derivare da una condivisibilità cognitivo-comportamentale, cioè devono nascere da attività di qualche tipo che siano però socialmente accettabili. Ad esempio, in un solitario per definizione non condivido il gioco con nessuno, tuttavia un altro potrebbe essere incuriosito e volere imparare per provare a giocare a sua volta a questo “solitario”.

Quindi la condivisibilità del gioco non riguarda tanto la richiesta di relazione compartecipata, come nel gioco a squadre, ma la possibile trasmissione di un idea cognitivo-comportamentale di natura sociale. In altre parole il gioco non ha un fondamento politico, ma mutuamente educativo.

Ecco allora svelato (forse) che il gioco è creativo e la creatività diventa di fatto una qualità inscindibile
rispetto l’attività del gioco. Di più, la creatività nel “gioco creativo” è vitale per l’essere vivente e questo bisogno ci accompagna non meno dei nostri bisogni primari.